Morire in vita

[Traduzione da El Pais] di Tommaso Clavarino

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Hajjati è seduto con le gambe incrociate. Un tappeto di plastica copre il pavimento di terra e una tenda chiude l’entrata della casa, suo nascondiglio da due mesi. E’ dovuto fuggire dalla sua casa e rifugiarsi qui nelle abitazioni di lamiera dei dintorni del centro della città di Kampala. Prima i suoi genitori, poi i suoi amici: uno dopo l’altro lo hanno abbandonato. Non potevano accettare la sua transessualità. No, non potevano accettarlo. Non in Uganda, uno dei paesi più omofobi del mondo, nel quale il presidente a vita Museveni definisce gli omosessuali  ekifiire (morti viventi); e nel quale, periodicamente, vengono proposte nuove leggi per criminalizzare e punire l’omosessualità. “Era il 2013. Avevo 19 anni”, racconta Hajjati. “All’inizio non sapevo nemmeno cosa significasse essere transessuale. Credevo di essere omosessuale, ma in realtà mi sentivo una donna, mi piaceva truccarmi di nascosto. Feci qualche ricerca e quello fu il momento più bello della mia vita”. Tuttavia, un momento molto breve perché da allora la sua esistenza si trasformò in un vero incubo. “Parlai con la mia famiglia ma la reazione fu atroce. Mi cacciarono di casa. Cercai di parlare con alcuni amici ma anche loro non volevano saperne nulla”, continua Hajjati. “Molte volte fui costretto a chiedere rifugio a diverse persone. In seguito, trovai un appartamento a Rubaga, ma qualcuno gli diede fuoco”. È stato costretto a vagare da un posto all’altro per cercare un luogo sicuro dove fermarsi, dove poter vivere la sua vita. Cacciato da casa senza nessuna fonte di guadagno né possibilità di trovare lavoro, perché qui in Uganda, nessuno assumerebbe un transessuale, Hajjati fu costretto a fare ciò che tutti i giovani trans, o quasi, fanno in questo paese: vendere il proprio corpo per sopravvivere. Questi ragazzi si nascondono nelle loro case durante tutto il giorno e scappano via di notte cercando di non essere visti per dirigersi negli hotel e negli appartamenti dei loro clienti sparsi nella capitale. I clienti, occidentali, cinesi e molti ugandesi spesso li picchiano, li violentano, li derubano impunemente. “La gente sa che con noi può fare ciò che vuole, che abbiamo pochissime armi per difenderci”, fa notare Edwine, 19 anni, che vive in 20 metri quadrati con altre sei giovani ragazze transessuali. Si truccano a vicenda, si scambiano i vestiti, si scattano foto da pubblicare sui social perché solo tra queste quattro mura possono essere sé stesse. “Se mai andassimo dalla polizia, ci maltratterebbero, ci rinchiuderebbero in una cella e riderebbero di noi”. Inoltre, sono anche vittime di violenza e di furto nelle loro case. Le bande di periferia fanno irruzione nelle loro abitazioni, prendono quel poco che hanno, le picchiano e se ne vanno.

Alicia sta camminando per il mercato di Nakesero. All’improvviso, si ferma, china la testa e tende l’orecchio. Alla radio, un predicatore evangelico si scaglia contro gli omosessuali. Li definisce “esseri inumani”, “contro natura”. Tutti li guardano. “Lo vedo che, ogni giorno, quando esco di casa, tutti mi guardano. Nel migliore dei casi ridono di me; la maggior parte delle volta mi insultano”, dice dispiaciuto. Un anno fa, Alicia iniziò a lavorare per Transgender Equality Uganda, una associazione che offre aiuti legali e assistenza medica alla comunità transessuale del paese. Davvero, perché in Uganda, le persone transessuali non sono benvenute negli ospedali. “Quando andiamo in ospedale, i medici e le infermiere iniziano a chiederci se siamo uomini o donne, ci prendono in giro e ci ignorano”, racconta Alicia, “così non abbiamo scelta. Ce ne andiamo senza aver ricevuto assistenza né nessun trattamento. Tutti i settori della società ci discrimina e ci emargina”. Anche la comunità LGBT, che ha lottato e continua a lottare duramente contro i progetti del Governo di Kampala e contro chi li discrimina. Le persone trans sono maggiormente riconoscibili, a loro risulta più difficile passare senza essere viste in una società sessista e omofoba; gli costa molto di più occultare la propria identità e non esprimere la propria femminilità. Tuttavia, proprio in questa società, difenderla pubblicamente e accoglierle può essere autodistruttivo, anche per chi condivide con loro la pena della discriminazione e della violenza. Molte volte questa violenza è provocata dai mezzi di comunicazione del paese che, insieme alla chiesa, seminano l’odio contro i transessuali e la comunità LGBT in generale. Questo è ciò che è successo a Sharim, 20 anni, registrata col nome di Richard: “Mi sono sempre sentita una donna, per questo, appena posso, mi vesto così. Una volta mi trovai in un hotel con un cliente. Quando scoprì di non avere una donna davanti a lui, chiamò la Polizia. Mi picchiarono fino a farmi perdere i sensi, poi chiamarono la televisione e mostrarono il mio volto a tuta l’Uganda pubblicandola anche sui social”. Fu allora che la sua famiglia scoprì la vera identità di Sharim e che era sieropositiva. Non ebbero nessun dubbio o titubanza: “Mi cacciarono di casa. Ora la mia famiglia sono le mie compagne transessuali”. Questa è una comunità obbligata a vivere nella paura, senza diritti, speranza né prospettiva. Sognano il giorno in cui potranno accedere alla terapia ormonale per cambiare sesso, ma in Uganda è impossibile. Devono andare in Kenya, ma poche possono permetterselo, così continuano a vendere il loro copro per sopravvivere, nascondendosi come ladre, nascondendo la propria identità.

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